Il compositore e pedagogista della musica Antonio Giacometti ha recentemente presentato in Brasile, nel bel teatro Amazonas di Manaus, reso noto dal film Fitzcarraldo, una sua composizione dal titolo Jungle Jazz. Uma Sinfonia amazônica. Si tratta di una “sinfonia” in otto parti, ispirata alla difesa dell’Amazzonia e contro l’aggressione che subisce. Abbiamo rivolto ad Antonio Giacometti alcune domande sulla sua esperienza.
Caro Antonio, sappiamo che non è la prima volta che ti impegni in temi legati al Brasile, conoscendo già la tua composizione Kindara Ouverture per Orchestra di fiati (https://www.youtube.com/watch?v=Xa4GkC5LJmU) e quindi ti chiedo perché di questo tuo legame a quel paese e di conseguenza all’Amazzonia.
Come è nato e come hai realizzato il progetto della sinfonia amazzonica?
L’amore per il Brasile è nato tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, grazie all’incontro, dopo decenni, con un mio vecchio compagno di scuola, Roberto Malighetti, padre di due bambine che in quel periodo facevano parte del mio primo “gruppo della domenica”. Roberto era diventato un quotato antropologo ed aveva un’intensa frequentazione col Brasile del nord-est, in particolare col Maranhão e con Bahia, dove aveva svolto diversi lavori e pubblicato un importante libro, poi anche tradotto in italiano. Tra una chiacchiera e l’altra, un ascolto, una lettura, ho iniziato ad appassionarmi a quella gigantesca terra e a studiare i suoi ritmi e le sue melodie popolari, inserendoli ben presto in quell’archivio mentale di musica colta e popolare extraeuropea, che avevo cominciato a caricare nel lontano 1991 quando, stanco di dieci anni di lavoro compositivo passato all’ombra di uno strutturalismo astratto, forse anche mal interpretato, digerito e assimilato, avevo iniziato a cercare altrove motivazioni più sensoriali, appartenenti alla storia dell’uomo piuttosto che ad elaborazioni pseudomatematiche, studiando i Rāga e i Tāla dell’India settentrionale e rielaboradoli sulla base della mia storia e delle mie convinzioni estetiche nel mio primo brano “etnico” per soprano ed ensemble (Beyond the Rāgas – 1993). Grazie ad un libretto sui ritmi delle cerimonie dell’Umbanda nel Maranhão (Tambores de Mina), regalatomi da Malighetti, nacque nel 2000 Quando i venti del mondo mi portarono la voce dei tamburi, una composizione dal titolo … cavaniano, che oppone ad una prima sezione più tradizionalmente sinfonica, scritta filtrando le melodie e i ritmi dei Tambores all’interno di un linguaggio da secondo Novecento occidentale, una seconda, che libera quei ritmi e quelle melodie lasciando che comunichino la loro motricità irruenta, il grido delle voci e i climax quasi orgasmici di una vitalità primordiale e misteriosa. Certo, lo iato è tremendo, come si può anche, volendo, verificare (https://www.youtube.com/watch?v=Q6blxVIomUI&list=LLaTPmftWoSDzNPEUkdunSIA&index=18 ). Uno iato anche personale, tra ciò che ero e ciò che ero stato, che mi è costato per un buon paio di decenni abbondanti l’isolamento dai circuiti della cosiddetta musica contemporanea, avendo solo la stima e la fiducia di pochi amici strumentisti che, nonostante tutto, continuavano a chiedermi pezzi e a suonarli, permettendomi di verificare di volta in volta i risultati estetici (a volte disastrosi!) delle mie ricerche, che diventavano di anno in anno sempre più voraci ed affannose: poliritmie del centro-africa, gamelan balinese, ritmi polinesiani e, qualche anno fa, ritmi dell’Amazzonia. Nel 2016, il Festival “Risuonanze” di Udine e dintorni mi commissionò un brano per due flauti e pensai che a vent’anni esatti dalla composizione di African Birds per due flauti e pianoforte (https://www.youtube.com/watch?v=oD2VwwpEZjc ), una metafora delle prime grandi emigrazioni africane in Italia, poteva starci una ricerca sugli uccelli amazzonici, numerosi, bellissimi e variegati, ma, soprattutto, in grado di elaborare canti complessi. Come nel ’96, cominciai dunque una ricerca sui ritmi dell’Amazzonia e così conobbi in rete Ygor Saunier, un giovanissimo e appassionato batterista di Maués, un paese sul Rio Negro a tre giorni di barca da Manaus, che aveva appena dato alle stampe un libro, Tambores da Amazônia, risultato della sua tesi di dottorato presso l’Università di São Paulo. La sua passione per quella terra era davvero contagiosa. Iniziai ad informarmi maggiormente sui problemi che l’assillavano, il disboscamento, le uccisioni degli Indios, la revoca delle leggi di protezione ambientale da parte del nuovo Presidente Bolsonaro. Nacque Passaros de uma Amazônia desconhecida (https://www.youtube.com/watch?v=_mJ9ywxc_l4 ) per flauto e ottavino. Un’Amazzonia, appunto, ancora a me sconosciuta, ma che suscitava in me una specie di saudade preventiva, un desiderio di tornare dove non ero mai stato. Una domenica dell’anno successivo, durante una ricerca di cantanti brasiliane che potessero essere interessate all’interpretazione della mia raccolta di canzoni su testi di Iris Boff, la sorella minore di Leonardo Boff, il teologo della liberazione (https://www.youtube.com/watch?v=OIFnPbxPEX0 ), trovai casualmente su Facebook il nome di una cantante amazonense, Karine Aguiar, che, pure non ancora trentenne, aveva già vinto diversi premi per l’interpretazione di canzoni di compositori della sua terra e aveva al suo attivo due CD, di cui uno registrato a New York. Le scrissi spedendole il link delle canzoni e lei mi rispose entusiasta, dicendo che le avrebbe fatto molto piacere poter interpretare quelle canzoni col suo Trio, fondatore di un genere particolare, il Jungle Jazz, che commistionava armonie ed inflessioni Jazz coi ritmi amazzonici ricercati e suonati con cura da suo marito. Sì, scoprii che Ygor Saunier era suo marito. Forse davvero nulla accade per caso a questo mondo … Da lì, il concerto organizzato dal teatro Comunale di Modena nella primavera dello stesso anno all’interno del cartellone cross-over “L’altroSuono” e la promessa che prima o poi avremmo realizzato insieme un progetto musicale per valorizzare la canzone autoriale amazzonense e sensibilizzare i popoli del mondo ai problemi di cui dicevo poc’anzi. Tale progetto si concretizzò solo alla fine del 2018, quando i due coniugi mi annunciarono che avevano vinto il bando della municipalità di Manaus per il finanziamento del progetto “Jungle Jazz. Uma Sinfonia amazônica”. Il concerto si sarebbe tenuto a fine di novembre/inizi di dicembre del 2019 presso i Teatro di Manaus. Tralascio di raccontare l’emozione di entrare nel Teatro legato ai miei ricordi da adolescente inebetito davanti allo schermo a guardare gli occhi da pazzo di Klaus Kinsky nel film di Herzog da te prima citato e mi limito a dire che in un anno ho dovuto scrivere i due brani per orchestra e voce che fanno da cornice allo spettacolo di Karine e che sono basati su testi di denuncia della situazione ambientale e altri otto arrangamenti, sempre per grande orchestra, di altrettante canzoni di autori amazzonensi (ne sono state poi eseguite solo sei per mancanza di tempo e di prove in numero sufficiente); il tutto facendo il mio ultimo anno di Direzione al Conservatorio modenese, incarico che notoriamente lascia alla propria vita personale meno che briciole quotidiane di tempo. Il concerto è stato poi realizzato lo scorso 8 dicembre, col teatro sold-out (701 posti) e duecentocinquanta persone lasciate fuori. Un pubblico entusiasta e partecipativo, che ha apprezzato sia la parte sinfonica, più volta ad un linguaggio da “musica colta contemporanea”, sia gli arrangiamenti, più tradizionali, ma sempre sinceramente “miei”, quindi filtrati dalla mia esperienza di compositore avvezzo alla ricerca timbrica, all’impasto sonoro particolare, soprattutto congruente rispetto ai significati dei testi, molto popolari e anche talvolta un po’ ingenui, ma dotati tutti di grande poesia e amore per la propria terra, la propria natura incantata e incantante, di fronte alla quale, credimi, ci si sente esseri piccolissimi e ci si ridimensiona, ci si ridimensiona tanto, tantissimo. E’ stata, sì, un’esperienza professionale ed umana unica, che spero di poter ripetere presto. Di quel concerto si sta producendo un DVD di lancio per la Aguiar, che sarà pronto a metà anno.
Ti sei impegnato molte volte in composizioni che guardano oltre l’Europa, conservo con piacere la partitura di Riti di passaggio che mi mandasti alla fine degli novanta. Come nasce questo tuo interesse verso il dialogo con altre culture musicali?
Te ne ho già parlato nella risposta precedente. Se vuoi, puoi scorporare come più ti aggrada da quel discorso la parte che riguarda questo argomento, ma a me non sembra stiano male agganciati là.
Come vivi l’accostarsi a culture musicali diverse dalla nostra, senza cadere in un semplice folclorismo, una citazione, ma entrando in queste culture a partire dalla tua esperienza di compositore europeo?
Penso innanzitutto si debbano distinguere tre piani, almeno per quella che è stata, e continua ad essere, la mia esperienza compositiva: uno esistenziale, uno etico ed uno estetico. Come dicevo in precedenza, la ragione primaria ed in un certo senso nucleare del mio interesse verso culture musicali diverse è stata una profonda crisi di natura personale. La mia scrittura era diventata quasi automatica ed io soffrivo moltissimo, sentendo che non riuscivo più a partecipare emotivamente a quei processi astratti che solo qualche anno prima mi esaltavano e, dato non trascurabile, mi avevano fatto vincere parecchi concorsi nazionali ed internazionali, anche importanti. Molti colleghi ed allievi mi dissero che sbagliavo, che non capivano perché volessi abbandonare una strada che portava a risultati eccellenti per avventurarmi in un territorio dai confini ambigui, dove, come dici tu nella domanda, il rischio di cadere nella cartolina illustrata o nel folklorismo, nella citazione gratuita, è continuo. Ma io sono un Capricorno, testardo e zuccone quanto basta per non abbandonare mai le strade intraprese. Così ho proseguito con la mia ricerca, che col passare degli anni e, diciamolo senza paura, dei decenni, si affinava sempre più, riuscendo, nei pezzi meglio riusciti come appunto African Birds o Syncretic Landscape IV (https://www.youtube.com/watch?v=GhAnQ6FYVyg ), ad integrare riserve sonore, ritmi e timbri di diversa provenienza nell’alveo delle mie strutturazioni sonore, talvolta molto complesse, ma sostanzialmente chiare nella forma e nel messaggio astratto che intendono comunicare. E qui, il livello esistenziale entro cui si è creato il bisogno incontra quello etico, dove l’esigenza di rappresentare il mondo si realizza nella preservazione delle diverse identità, che non ha nulla a che vedere con la cartolina illustrata o con la fotografia turistica, ma, al contrario, con le modalità di strutturazione più profonde, che potenziano e moltiplicano i canali comunicativi con l’ascoltatore sensibile, realizzando la profezia di Steve Reich (uno dei miei autori di riferimento, insieme a Bartók e Ligeti), che nel suo articolo Some optimistic predictions about the future of musicdel 1970 sciveva pressapoco così: «La musica non occidentale in generale e quella africana, indonesiana, indiana in particolare, fungeranno da nuovi modelli strutturali per la musica occidentale. Non come nuovi modelli sonori (cioè il vecchio viaggio esotico). Chi di noi ami queste sonorità se ne dovrebbe speranzosamente andare ad imparare come questa musica si suona. Le scuole musicali risorgeranno attraverso l’offerta d’istruzione di teoria e prassi delle nuove musiche del mondo. I giovani compositori ed esecutori daranno vita ad ogni tipo di nuovi ensemble che cresceranno da una o più delle tradizioni musicali del mondo.” Senza la pretesa di aver inventato qualcosa di nuovo, ecco il terzo livello cui accennavo, quello estetico. Ciò ovviamente non significa che in questi trent’anni io non abbia continuato a scrivere musica partendo da stimoli più o meno extramusicali e utilizzando tecniche compositive meno “contaminate”, però sempre alla ricerca del diverso, del diseguale, dove la coerenza e l’organicità dell’opera risiede nella sua aderenza al progetto espressivo che le sta alla base. Basterà ascoltare due pezzi divaricati come Estranei paesaggi celesti con luna per violino e cello del 2012 (https://www.youtube.com/watch?v=n7dicQX4m_k ) e Invisibili specchi del passato per oboe e orchestra d’archi del 2013 (https://www.youtube.com/watch?v=vfGR7t8egPw ) per verificare questa sorta di schizofrenia scritturale. Ma io sono un curioso irrequieto, spesso incoerente e penso che la mia musica mi rispecchi completamente, nel bene e nel male.
Posso chiederti come è stato presentare una composizione del genere un Brasile che ha un presidente come Bolsonaro, che arriva persino a negare il cambiamento climatico? Che applica una politica di discriminazione razziale?
Semplicemente meraviglioso! Perché meraviglioso è poter fare il musicista sentendosi utile ad una causa e facendolo in casa del … nemico giurato di quella causa. E poi ero circondato da persone che credono fermamente nella loro terra, ci credono con una sincerità, un fervore e una devozione che la maggioranza di noi ha perso nei confronti dei propri luoghi natii, delle proprie radici profonde ed ancestrali. L’apertura dei confini internazionali e la circolazione della cultura su scala planetaria ci ha resi più cittadini del mondo, e questo è un bene e lo sarà ancor più per le generazioni future, ma la perdita della memoria delle tradizioni locali e della volontà di difesa della natura in cui insistiamo permette qualsiasi speculazione perpetrata in nome del bene comune e della crescita su larga scala che, sola, può permettere la creazione di un bene diffuso, come sta succedendo nel Brasile di Bolsonaro, dove la forbice tra ricchi e poveri si sta di nuovo aprendo a dismisura, dopo la pausa sotto i mandati Lula e Russef. Mi hanno riportato fatti e situazioni veramente agghiaccianti … sì, sono felice di aver partecipato.
Torniamo alla Sinfonia amazzonica. In passato hai già affrontato altri temi sociali e politici. Ricordo il tuo lavoro “I care, l’eredità ignorata” ispirata alla figura e al lavoro di Don Milani, realizzato tra l’altro con studenti e insegnanti dell’istituto Torelli di Modena che allora dirigevi. VEDI LO SPETTACOLO. Credi, come credo io che la musica contemporanea possa avere un ruolo sociale e politico nel momento in cui molti compositori sembrano pensare solo all“arte per l’ arte”? Te lo chiedo anche pensando alla tua esperienza di pedagogista musicale che ha sempre affiancato quella del compositore.
I care è stata un’esperienza davvero entusiasmante di lavoro con attori professionisti e con studenti di un’ampia fascia d’età, che andava dai 5 ai 20 anni, ma quell’Oratorio più che un tema sociale affrontava un tema didattico, che è poi anche politico, cioè l’importanza di promuovere nell’insegnamento, oltre all’eguaglianza e alla reale parità delle opportunità di partenza per tutti (anche oggi, non si creda, più apparente che reale anche in un Paese apparentemente civile e sviluppato come il nostro), le tre parole chiave sottese al messaggio milaniano e per me ancora per lo più ignorate nei fatti dalla realtà scolastica italiana: autonomia, personalità, aiuto reciproco. In tal senso, “I care” è stata concepita come una sorta di opera didattica al quadrato, nella quale si mettono sul palcoscenico i frutti di un lavoro condotto secondo i principi che si sviluppano nel testo teatrale, per cui il punto culminante, fateci caso se avrete la bontà di dedicargli un’ora del vostro tempo, giunge non in virtù delle parole o della musica, ma di un “gesto” didattico tanto forte quanto apparentemente nascosto dalla dinamica della narrazione. Quando infatti Don Milani si avvicina al Direttore/coordinatore dell’orchestra e del coro citando una delle frasi a mio avviso più provocatorie degli scritti del Priore (“Non è meraviglioso, da vecchi, prendere una legnata da un figliolo? Sarebbe segno che quel figliolo è già un uomo e che non ha più bisogno di balia e questo è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso”), il Direttore si allontana con lui, lasciando che i trenta ragazzini dell’orchestra e gli altrettanti bambini del coro gestiscano in totale autonomia l’ultimo terzo, circa, dello spettacolo, coi risultati che si possono valutare, anche in relazione alla loro (supposta) inesperienza. Ecco, io vorrei solo questa scuola che ancora non c’è: una scuola che persegue l’autonomia di pensiero, fornendo a bambini e ragazzi i mezzi culturali per esercitare la critica e decidere in autonomia, che valorizza le menti migliori per metterle a disposizione di quelle meno brillanti, incentivando la pratica dell’aiuto reciproco, che punta convintamente, anche attraverso un coraggioso ribaltamento dell’attuale struttura scolastica, sullo sviluppo della creatività individuale e collettiva e sulla tendenza naturale dei bambini e dei preadolescenti ad esprimersi, giocando con le parole, i suoni, i movimenti e i concetti, uscendo nei fatti (e non solo negli scritti dei pedagogisti) dal pregiudizio che l’arte non sia in grado di farsi catalizzatrice di preparazione culturale e rappresenti in fondo solo un’inutile perdita di tempo. Con gli attuali assetti scolastici, riforma dopo riforma, siamo caduti sempre più in basso, licenziando alunni sempre più ignoranti e con un senso civico vicino allo zero assoluto. Quindi? Il mondo è cambiato, non importa se in meglio o in peggio, e continua a cambiare. Una scuola in ascolto di questi cambiamenti solo per merito di una parte comunque minoritaria di insegnanti appassionati e votati con abnegazione alla missione dell’insegnamento non basta. Si deve modificare l’approccio strutturale all’insegnamento e riempire di senso i suoi contenuti, altrimenti le nuove generazioni non capiranno mai per quale motivo sia bello sapere e studiare per il gusto di sapere e per la soddisfazione morale di metterlo a disposizione di chi non ce l’ha. Ecco, sono stato un po’ lungo, ma volevo spiegare dove sta di casa il mio impegno da compositore per cercare di dare un contributo alle cause che mi coinvolgono maggiormente. Diciamo che, mutatis mutandis, lo stesso atteggiamento mi ha portato verso l’Amazzonia. Certamente arrangiando canzoni brasiliane e scrivendo pezzi per orchestra su testi coinvolgenti e di denuncia non ci si mette in prima linea a rischiare la libertà o la vita per difendere la foresta equatoriale e i suoi abitanti indigeni, ma senza dubbio si può aiutare le persone più sensibili a riflettere su una tematica decisiva per il futuro dell’umanità. Ognuno faccia quanto è nelle sue corde, ma lo faccia. E possibilmente subito.
E’ regola concludere un’intervista a un compositore chiedendogli dei suoi progetti futuri. Quali sono i tuoi?
Oltre ai due pezzi che sto finendo in questi giorni, ancora direttamente ispirati all’Amazzonia e a Rio de Janeiro, tra quest’anno e il prossimo dovrò scrivere due composizioni orchestrali per altrettante Istituzioni musicali italiane e alla fine del 2021 spero che venga rappresentato un particolare lavoro di teatro musicale che ho proposto per celebrare il 75° anniversario dalla prima edizione italiana de Il Muro di Paul Sartre (Gli uomini visti dall’alto, su testo del giovane scrittore e cantautore bresciano Giovanni Peli, già mio compagno di avventura nei lavori di teatro musicale con bambini e ragazzi, tra cui l’opera Volevo un foglio, scritta a quattro mani col mio ormai “storico” allievo Mauro Montalbetti nel 2004 e vincitrice del Concorso indetto dalla Scuola di Musica di Fiesole per il 40° anno dalla sua fondazione). Per completare il giro degli impegni biennali, a giugno 2021 consegnerò all’Editore Franco Angeli un testo che riflette su quarant’anni di sperimentazioni e spettacoli di teatro musicale per bambini e ragazzi, cercando di fornire strumenti metodologici ed esempi vivi di lavoro agli insegnanti interessati a questo tipo di attività (Drammaturgie sonore. Materiali e riflessioni per un teatro musicale dentro e fuori la scuola). Sempre sperando che il Brasile continui a chiamare …