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Trame e Percorsi – Andrea Lanza – 1995

ANTONIO GIACOMETTI – TRAME E PERCORSI
Musica da camera 1981-1993

UNA RICERCA DI SINTONIE

di Andrea Lanza

La presente raccolta di lavori di Antonio Giacometti illustra l’itinerario del compositore fra il 1981 e il 1993. Come in ogni retrospettiva, a essere documentati non sono soltanto gli orizzonti individuali dell’autore, ma anche le tracce che gli eventi e i caratteri generali di un’epoca vi hanno lasciato, accomunando la sua opera a quella degli altri: la crisi del concetto di modernità, la caduta della “torre d’avorio”, un nuovo modo di concepire la storia e di guardare al presente.
E tuttavia, la vicenda di Giacometti non è né tipica né ovvia. Ogni autore porta in sé disposizioni e sensibilità e idiosincrasie che trapassano il tempo e, più che evolversi, si stratificano nei lavori successivi.
Quelle di Giacometti appaiono dominate da una cifra, da un’idea che diviene più chiara nel corso degli anni: la convinzione che oggi, dopo l’avanguardia, il senso del comporre non stia affatto in un ipocondriaco ritorno al soggetto, ma nella riscoperta delle radici profonde che legano la musica al sentire collettivo. E’ un’idea di rigenerazione che, diversamente da altri, Giacometti non fonda su una fiducia incondizionata nell’ingenuità dell’espressione e della percezione musicale. Come l’avanguardia aveva posto in luce l’estrema complessità del linguaggio, così oggi è necessario, per Giacometti, scoprire la parallela complessità dei meccanismi dell’ascolto e della comprensione musicale. Poiché, se occorre ricucire il rapporto fra compositore e pubblico, non necessariamente a quest’ultimo spetta di compiere l’intero cammino.

I lavori qui raccolti testimoniano appunto del graduale affacciarsi di questa prospettiva in momenti diversi del processo di maturazione del linguaggio e dello stile: da Nocturne géométrique (1981), dove il respiro di un fraseggio si insinua nelle astratte figure puntillistiche, a Lord of the flies per violino (1984), ancora debitore delle Sequenze di Berio, ma con un di più di protervia e di eccitazione che dà evidenza fisica al gesto musicale; da Dernière Iettre (1986), che riscopre il materiale musicale come interiorità (non più “spirito oggettivato” come in Adorno) e si chiude con un frammento di un Lied di H. Wolf, a Sonata per chitarra (1987), contenente la citazione di un pop song dei King Crimson; sino ad arrivare, in Linear motions (1990), a un definitivo superamento del costruttivismo astratto e a un ritorno alla linea e alla nozioni di scala e di spazio armonico, e nei più recenti Hockmah e Riti di passaggio a una complessa stratificazione linguistica.

Nocturne géométrique (histoire d’un rêve), per due chitarre (1981)

Il titolo, vagamente alla Satie, è un’antinomia, così come antitetici sono i due atteggiamenti che governano lo stile della composizione: da un lato, la reminiscenza dell’astratto puntillismo combinatorio dell’avanguardia; dall’altro, un incipiente abbandonarsi all’estro e a una discorsività più distesa, che si avverte in certe ricorrenze strofiche o in isolati gesti espressivi sfuggiti alle maglie del contrappunto. La forma è quella ABA di un notturno di Chopin, con la sezione centrale a contrasto, e l’ultima parte che riprende la prima con varianti. Come spesso in Giacometti, una citazione letteraria è preposta alla partitura (un labirinto oscuro (…) confonde il mio sogno… da G. Lorca) e ne offre insieme il pre-testo e il contesto referenziale. E c’è forse una larvata autoironia nel relegare alla sfera onirica la propria emancipazione dai rigori strutturalistici. La prima parte del brano è un gioco di sottigliezze e di ambiguità. All’inizio, la seconda chitarra abbozza otto suoni di una serie a partire dal mi grave, ma subito ricade su se stessa. Il completamento dodecafonico arriva più avanti con l’entrata dell’altra chitarra, quando ormai sotto la superficie contrappuntistica si è insinuato un sospetto di melodia e accompagnamento. Il discorso musicale fluttua liberamente, ma al di là dell’apparente continuità si sente il ritmo regolare di un respiro sotterraneo che modella le frasi, asseconda le simmetrie e suggerisce raggruppamenti regolari di periodi su un alternante pedale di mi e sib. E l’uso di artifici variativi d’origine seriale nella seconda chitarra (retrogradazioni a specchio, inversioni, spostamenti d’accento) non fa che rafforzare il senso di fissità con un andamento a spirale che ricorda l’antico contrappunto upon a ground – trasposizione musicale di un’idée fixe, di un sogno ricorrente. La seconda parte, secca e tagliente, scorre via “il più veloce possibile”, mentre l’ultima ripete la prima, con inserzioni di note e nuovi effetti strumentali, sino al conclusivo accordo strappato, che segna il brusco riemergere alla realtà.

L’estasi del moto, per chitarra (1989)

Il tempo, inteso come processo sia della costruzione musicale che dell’atto di ascolto, è al centro di questo lavoro che ha la concentrazione e la logica rigorosa di uno studio. Vi sono impiegati vari procedimenti di trasformazione e ripetizione che adombrano i meccanismi accumulativi/proiettivi dell’ascolto, attraverso i quali la musica diviene flusso interiore della coscienza. Commentando il brano, l’autore ne definisce i diversi gradi e tipi di tensione dinamica come “inerziale”, “evolvente”, “geometrico”, “occultato”, “gestuale”. Il discorso musicale si sviluppa nel contrasto tra un principio ritmico binario e ternario e in un’alternanza fra momenti di densità e di rarefazione, di stabilità e di spinte propulsive. Due elementi digressivi assumono particolare forza segnaletica: una figura percussiva ostinata, con sonorità di basso elettrico, che emerge a tratti dallo sfondo, e uno scheletro di valzer che interviene circa a metà del brano, per riapparire più tardi deformato in tempo binario.

Linear motions, per violino e chitarra (1990)

Come nel precedente lavoro, un procedimento logico-costruttivo viene assunto come matrice generale della composizione.In L’estasi del moto era un principio di trasformazione applicato a moduli metrici. In Linear motions è invece il principio della scala, del moto ascendente per gradi congiunti, che diviene generatore di spazi armonici. Il materiale di base consiste in otto “collezioni” di suoni che riproducono altrettanti modi della musica jazz: le si ascolta all’inizio, suonate in rapida sequenza dai due strumenti con volate interrotte da pause. Ma la scala non è soltanto una struttura logico-musicale. E’ anche il DNA di un retaggio etnico e culturale, e in questo senso la mescolanza di differenti scale agisce anche come un contesto multilinguistico, che determina una pluralità di riferimenti. Nei successivi Hockmah e Riti di passaggio se ne avrà un impiego in più espliciti contesti di significato; qui tale mescolanza si presenta invece nella sua pura essenza musicale e sottoposta a procedimenti combinatori volti a saggiare il grado di compenetrazione e di impermeabilità fra i materiali. Da questa immanente dialettica scaturiscono poi le tensioni che animano la superficie musicale, amplificate dal gioco delle contrazioni e degli slanci, e dalla contrapposizione tra figure lineari, germinazioni minimalistiche e aggregati fonici al limite del rumore.

Hockmah (Studio sul Pendolo n.2), per flauto, clarinetto e chitarra (1991)

Hockmah è l’albero cosmogonico dell’antica mistica ebraica, lungo i dieci rami del quale Dio si manifesta via via nelle sue categorie (le 10 Sefiroth), uscendo così dal segreto del suo essere. E’ un’allegoria della creazione del mondo dal caos o dal nulla primordiale, ma nell’intento di Giacometti, che la ricava non dalla Cabbala ma dalla lettura del Pendolo di Eco, l’immagine vuole suggerire altre correlazioni: ad esempio, una metafora della musica in quanto processo di svelamento di un’unità che diviene percepibile solo per tappe successive nel tempo. Il numero 10, coniugato col 12, figura magica del razionalismo musicale, informa la struttura esterna del brano e ne determina alcune corrispondenze interne. La composizione si articola in 12 sezioni, racchiuse fra un’introduzione nello stile di una Vorstellung des Chaos aleatoria, e una coda finale. Ciascuna sezione è come un tropo germogliato da uno dei dodici suoni della serie tratta dall’op. 27 di Anton Webern, e a sua volta sviluppa una scala modale, di volta in volta diversa. Queste scale, in numero di dieci, interagiscono fra loro facendo perno sui suoni comuni e rappresentano la superficie più esterna ed effimera del materiale, dove diviene via via intellegibile quanto rimaneva inespresso nella serie. A un primo ascolto, il discorso musicale sembra seguire in un processo lineare di crescita, che muove dal disperso al compatto sino ad arrivare nell’ultima sezione ai fitti arabeschi di quartine in biscrome dei tre strumenti insieme. Ma a un livello più nascosto, il corso lineare rivela un’idea di specularità che di nuovo rinvia all’op. 27 di Webern, che è appunto uno studio sulla reversibilità del tempo musicale. Al termine della sezione VI (clarinetto solo), nel punto in cui il tritono re-sol# divide a metà la serie weberniana, il cammino torna indietro e le successive sezioni sono una riscrittura (sotto il profilo dell’invenzione strumentale) di quelle precedenti in ordine speculare. Ne risulta una forma a chiasmo, in quanto il processo di riscrittura si pone via via su livelli di complessità crescente. Così alla sezione I, col lento emergere di una melodia dal silenzio, corrisponde il febbrile horror vacui della XII. E alla sonorità informe dell’introduzione si corriponde nella coda finale una nuda esposizione della serie, quasi a suggerire una coincidentia oppositorum fra ordine e caos, fra razionalità e irrazionalità nelle loro forme estreme. In mezzo, tra i due opposti, resta la musica, con le sue impurita, le sue commistioni babeliche, il suo perenne affannarsi fra idee eterne e realtà sensibile, fra ratio e sensus, forma e materia.

Riti di passaggio (danze astratte al tramonto), per flauto, oboe, clarinetto, corno, marimba, vibrafono, pianoforte, violino, viola, violoncello (1993)

Riti di passaggio segna in Giacometti il punto più avanzato della ricerca di una musica in grado di creare attorno a sé una rete di significati in assonanza con la sensibilità collettiva di oggi. Il linguaggio non è dissimile da quello di Hockmah o di altri lavori precedenti, ma proiettato in una dimensione compositiva più complessa e in un più esplicito contesto referenziale in funzione della finalità scenica del lavoro (un balletto ispirato all’omonimo racconto di W. Golding). Lo schema d’insieme è una forma in progress con una articolazione ternaria di 3 x 3 episodi, intercalati da tre Sunsets (fasi del tramonto). Ogni Sunset è il fulcro di un processo di variazione cumulativa che proietta continuamente in avanti il materiale musicale: ad esempio Sunset 2 ripresenta variato il motivo pentatonico di Sunset 1, e nello stesso tempo completa la serie difettiva di nove suoni del precedente episodio in stile puntillistico alla Maderna (Prayer to the empty spaces). Per contro, Sunset 3 ristabilisce il motivo pentafonico nella sua forma originaria, con le sonorità sospese già udite all’inizio, e questo flash back insinua nel disegno formale un elemento ciclico (ABA) che fa sì che al termine del XII episodio il calar della notte coincida appunto con l’esaurirsi del ciclo. I procedimenti compositivi tendono a evidenziare le qualità caleidoscopiche del linguaggio musicale attraverso lo scambio di materiali di culture e sistemi musicali diversi e in una continua dialettica fra astrazione e concretezza sonora. Nel secondo episodio (Spiritual pulses and circles) un modulo raga è sovrapposto a una pulsazione ritmica nei metri di un tala indiano. Più avanti (Spectral invocations), è lo stesso raga a fornire lo spettro armonico per nuovi inserti musicali, inclusa una ripresa a strumentazione variata dell’episodio puntillistico. Gli elementi etnomusicali e i riferimenti a mondi lontani perdono significato esotico, e si presentano come i nuovi vocaboli di un universo musicale pluralistico che è ormai pane della cultura di oggi. Così l’enfatico segnale di corno che in South Pacific waves dà forza gestuale ai ritmi polinesiani; l’energia quasi fisica del Thaiti responsory; le sonorità gamelan su modi pelog e slendro in Music for an imaginary gong; nonché le sequenze dodecafoniche e jazzistiche che in Lyons dance si affrontano come corpi estranei nelle cadenze dell’oboe e del pianoforte sino a unirsi in quella del vibrafono.