A colloquio con Antonio Giacometti
TRA I GHIACCI DELL’ANTARTIDE
di Carlo Bianchi
Il freddo nevoso delle festività natalizie di quest’anno ha avvolto anche la musica che la “Isidoro Capitanio”, Banda cittadina di Brescia, ha proposto al Teatro Grande la sera del 21 dicembre – nel concerto che ha concluso le attività svolte durante il 2008 dall’Associazione costituita attorno alla Banda. Fra le composizioni in programma, infatti, era suggestivamente ispirato ai ghiacci del polo sud il brano Antartide di Antonio Giacometti, per tromba solista e orchestra di fiati. Nato dalla commissione che, come di consueto, l’Associazione rivolge a un compositore bresciano in occasione del concerto al Grande, Antartide ha visto anche la straordinaria partecipazione del trombettista Andrea Tofanelli, noto in Italia e all’estero, specie negli USA, per le sue doti fra l’altro di “bisacutista”: colui che sa strappare alla tromba suoni così acuti da eguagliare quelli di un ottavino. Per Antartide, dunque, sul palco del massimo teatro cittadino un solista di fama internazionale, una compagine bandistica, un brano scritto da un compositore che proviene dalla musica “colta” e, infine, sopra tutto, il mondo dell’Antartide, diviso in quatto movimenti: Terra della regina Maude – Il canto d’amore del pinguino – Piattaforme di ghiaccio sull’oceano – Marcia dei pinguini per la vita (omaggio a Maurizio Kagel).
In questo approccio all’organico per fiati e percussioni Giacometti ha confermato alcuni tratti salienti della sua poetica compositiva. Come è noto, fra le caratteristiche della produzione di Giacometti (poliedrica e vasta: un centinaio di pezzi, con i primi che risalgono alla fine degli anni Settanta, quando era ancora studente al Conservatorio di Milano) spiccano da un lato una fervida attenzione alla sfera extramusicale – evidente soprattutto nelle composizioni per il teatro, ma spesso esplicita e determinante anche in pezzi strumentali senza destinazioni sceniche – e dall’altro, specialmente da quando la personalità del compositore ha iniziato a delinearsi compiutamente, la continua ricerca, assimilazione e ri-elaborazione di un ampio ventaglio di “matrici linguistiche” – come sono state definite – ovvero moduli di scrittura, melodie, ritmi, armonie, scale e collezioni sonore, dalla derivazione fortemente connotata, ad esempio di derivazione etnica, appartenenti a mondi e culture lontane. Giacometti guarda spesso fuori dall’Europa.
Nel caso di Antartide, l’ispirazione alla vita dei pinguini e al desolato paesaggio glaciale che essi abitano si fa tutt’uno con i materiali musicali e con le caratteristiche degli strumenti – pur senza cadere nel descrittivismo, come lo stesso compositore si è preoccupato di indicare con il sottotitolo Poema sinfonico astratto. “Non era certo mia intenzione fare un ‘cartolina illustrata’ – ribadisce Giacometti in occasione di quest’intervista – non è nei miei interessi e forse nemmeno nelle mie capacità. In Antartide i suoni che mi sono stati suggeriti da fatti, comportamenti e paesaggi naturalistici sono essenziali, scarnificati. Mi rendo conto che l’espressione Poema sinfonico astratto è quasi una contraddizione in termini, ma non voglio che chi ascolta questo pezzo pensi alla colonna sonora di un documentario. È piuttosto una traduzione sonora delle sensazioni provate di fronte ad una natura più immaginata che vissuta, e tutto in una sorta di dimensione onirica”.
In quali circostanze ti sei trovato ad osservare il mondo dell’Antartide? E qual è il principale mezzo musicale che lega la tua composizione a questo mondo?
“Credo che il trait d’union musicale più evidente sia costituito dal verso d’amore del pinguino imperatore. Lo avevo ascoltato in un toccante documentario intitolato La marcia dei Pinguini, trasmesso qualche tempo fa in televisione. Era natale dell’anno scorso, dopo avere udito questo verso in televisione mi misi a cercarlo in internet, per poterlo fissare, e lo trovai, registrato in un sito particolare. Dunque chiesi a una mia collega che si occupa di musica elettronica se poteva ricavarne lo spettro armonico, ovvero le note che corrispondono alle varie frequenze di cui il verso è costituito. Così ho potuto constatare che il verso risulta da dieci note-frequenze diverse. Pensai che potevo partire da questo ‘dato oggettivo’ – diciamo così – per costruire tutta la composizione, utilizzarlo come materiale linguistico di base. Dopo aver ricevuto lo spettro nella sua forma originaria, ho subito provveduto a ottenere un ‘falso spettro’ musicale [ESEMPIO MUSICALE] dove le note sono ‘temperate’, cioè ho eliminato le varie oscillazioni microtonali – quei cent in più o in meno che i suoni hanno rispetto alle note musicali corrispondenti –, e inoltre le note pur essendo le medesime dello spettro originario sono disposte diversamente, distanziate tramite trasposizioni di ottava. Questo perché il verso del pinguino non è un canto, è un grido molto acuto, secco, stridulo, privo di risonanze, e i suoni-note che compongono il suo spettro sono molto ravvicinati. Se avessi utilizzato lo spettro nella sua forma originaria avrei ottenuto solo dei cluster – ‘grappoli’ di note costituiti da intervalli di tono e semitono eccezionalmente dissonanti. È un materiale sonoro per sua natura molto ‘aggressivo’, e nel mio pezzo ho cercato in un certo senso di ammorbidirlo”.
Dunque come si traduce questo spettro nella partitura musicale di Antartide?
“L’inizio del primo movimento, Terra della regina Maude, dispiega i dieci suoni del falso-spettro assegnando le prime note agli strumenti gravi, come tromboni e contrabbassi, per arrivare a far risuonare quelle più acute nei flauti e agli ottavini. Complessivamente dunque è un gigantesco arpeggio-accordo orchestrale che si forma nel giro di otto battute. Poi tramite una serie di manipolazioni degli intervalli dello spettro ho ottenuto una serie di altri materiali, di accordi in cui le note sono disposte in vari modi. In molti punti ho smorzato le dissonanze insite nel materiale di partenza, privilegiando certe distanze e certi rapporti più consonanti – oltre al fatto che, come dicevo prima, il falso spettro costituisce già in sé un ammorbidimento dello spettro naturale. A volte invece le note degli accordi sono più ravvicinate, a volte ci sono dei cluster. Ad esempio, le masse accordali all’inizio del terzo movimento, Piattaforme di ghiaccio sull’oceano, sono decisamente dissonanti, un modo per richiamare l’immaginario sgomento di un pinguino che improvvisamente si trova di fronte a questi colossi di ghiaccio. Considerando la composizione nel suo complesso, ho elaborato il materiale ‘naturalistico’ di partenza per creare quattro movimenti e quattro forme diverse. Questo però, ripeto, non sono la descrizione di un’esperienza di prima mano ma riflettono le sensazioni che ho ricevuto dalle cose che ho visto, prima in quel documentario e che poi ho potuto leggere, guardare e ascoltare consultando altri strumenti, soprattutto navigando su internet. Sensazioni mediate, insomma, un po’ come nei romanzi di Emilio Salgari”.
Da dove deriva il titolo Terra della regina Maud?
“La terra della regina Maude è una distesa ghiacciata sconfinata, che misura più di due milioni e mezzo di chilometri quadrati. Il territorio, rivendicato dalla Norvegia nel 1939 come territorio d’oltremare, era stato precedentemente intitolato dall’esploratore Roald Amundsen alla regina Maud di Norvegia. Dunque il primo movimento è una grande introduzione costruita con un punto culminante e un sorta di ripresa, una forma a suo modo tripartita anche se con la mia predilezione per le a-simmetrie. All’inizio, prima ancora dell’arpeggio-accordo-spettro, c’è una parte rumoristica delle percussioni, dove per certi strumenti – grancassa, timpani, tamburo militare, snare drums – prescrivo di spazzolare il perimetro della pelle a periodi regolari di una pulsazione, che ritornerà alla fine e che per tutta la composizione funziona come richiamo, come elemento connettivo fra i vari movimenti. È un modo per suggerire la camminata attraverso i ghiacci… potrei dire che, fatte le debite proporzioni, richiama la funzione delle Promenade fra i Quadri di un’esposizione di Musorgskij, anche se molto sintetizzata”.
Questa breve “camminata rumoristica” delle percussioni collega il primo e il secondo movimento e subito sfocia in una sezione in cui gli strumentisti emettono fischi di vario genere.
“Si tratta di una piccola sezione aleatoria. Gli strumentisti insufflatori sono chiamati a emettere fischi come versi di uccello, usando solo le ance o i bocchini. È un richiamo alle colonie di migliaia i pinguini su cui si staglia forte e acuto il profilo ritmico-melodico del verso del pinguino. È qui dunque che intervene la tromba solista, suonando alcune note dello spettro disposte in modo da formare un rapidissima cellula melodica. La tromba-pinguino è lo strumento-personaggio principale durante tutto il pezzo. Il verso del pinguino è d’altronde il fatto naturalistico che più mi aveva impressionato ne La marcia dei pinguini. Questo richiamo d’amore riesce ad unire a distanza un pinguino e la sua compagna pure in mezzo a migliaia di loro simili, incredibilmente. Credo che questo fenomeno sia determinato da certe frequenze che risuonano solo nelle orecchie e nel cervello dei due pinguini, ma dietro la spiegazione scientifica mi piace intravedere qualcosa di profondamente poetico, di toccante”.
Con Il canto d’amore del pinguino non entra in scena una tromba qualsiasi, ma quella di Andrea Tofanelli. Le sue spettacolari doti di “bisacutista” hanno influenzato le tue scelte nello scrivere la parte del solista-pinguino?
“Certo. Anzi, devo dire che l’idea di scrivere un parte che potesse raggiungere note acutissime l’avevo avuta pensando a Tofanelli prima ancora di trovare ispirazione nei pinguini e nei ghiacci dell’Antartide. L’idea originaria, quando l’Associazione ‘Isidoro Capitanio’ mi ha commissionato il brano, era quella di scrivere un generico concerto per Banda e tromba solista, e dato che Tofanelli lo conosco bene, perché è mio collega a Modena, avevo pensato subito a lui. Avevo già intenzione di modellare la parte del solista sulle sue doti straordinarie. Alla fine del concerto al Grande mi ha detto: ‘Antonio, mi hai impegnato davvero al massimo, adesso però me ne devi trovare un altro al mondo che te lo suona questo pezzo’. E io gli risposto: ‘Ma io non voglio trovarne un altro. L’ho scritto per te e mi basti tu”.
Puoi dirmi qualcosa riguardo all’orchestrazione generale? Era la prima volta che scrivevi un pezzo per Banda?
“La prima volta in assoluto no. Alcuni anni fa avevo già partecipato a un concorso di composizione per Banda indetto proprio dalla ‘Isidoro Capitanio’. A questa mia composizione peraltro era seguita una polemica fra il sottoscritto e Arturo Andreoli, che allora era direttore della Banda. La questione venne riportata sulle pagine di BresciaMusica e riguardava la supposta ‘appropriatezza’ di un scrittura per Banda. Avevo composto un brano che era troppo lontano da ciò che qualcuno pensa debba essere una strumentazione per Banda. Acqua passata, comunque. In questi ultimi tempi, dopo aver ricevuto la commissione da parte dell’Associazione, ho vagliato parecchio materiale per Banda, soprattutto registrazioni, e poi da tempo ormai scrivo musica per fiati e per sezioni di fiati. Sono strumenti che ora conosco abbastanza bene nelle loro grandi possibilità foniche ed espressive. Inizialmente volevo trattare la Banda come una specie di sostegno, uno ‘sfondo’ su cui si innesta la parte della Tromba solista, ma poi grazie all’ispirazione de La Marcia dei pinguini il lavoro si è rivelato molto più impegnativo. Antartide è comunque, per lo più, una sorta di ‘melodia accompagnata’, ma dovendo trattare la Banda in base ad un progetto espressivo così preciso ho infine conferito al pezzo una texture che non ha nulla a che vedere con quella dei pezzi per Banda che avevo esaminato. In Antartide la strumentazione della Banda è tendenzialmente ‘divaricata’: ci sono zone molto rarefatte, cameristiche, in cui gli strumenti suonano distantissimi fra loro, suggerendo un atmosfera desertica, e altre in cui il peso degli strumenti tutti insieme sembra che ci venga addosso, proprio come una gigantesca slavina di ghiaccio, con quegli accordi che sono sempre così ‘freddi’, anche solo come intervalli”.
La strumentazione per Banda è in molti aspetti diversa da quella per orchestra.
“Ovviamente. I fiati rispetto agli archi, al di là delle varie differenze di estensione, sono più pesanti e ‘penetranti’. La cosa che posso affermare con sicurezza è che non ho trattato gli strumenti della Banda come se fossero sostituti di altri dell’orchestra: non ho trattato i clarinetti come sostituti dei violini o i Basso tuba come sostituti dei contrabbassi – e peraltro in Antartide ci sono anche i contrabbassi. Ho pensato proprio a una Wind Band con i pesi e i timbri dei suoi strumenti specifici e tutto in relazione al linguaggio che volevo utilizzare. In Antartide, ad esempio, ci sono pochissimi raddoppi, per evitare una pesantezza che deriva anche dal materiale impiegato: a causa degli intervalli dissonanti che creano, determinando quasi un totale cromatico, le note dello spettro devono essere strumentate con sottigliezza, facendo molta attenzione all’effetto e al peso di ogni singolo suono. Basta appesantirne troppo uno solo, con la strumentazione, per creare degli scompensi”.
L’ultimo movimento Marcia dei pinguini per la vita, contiene una dedica a Maurizio Kagel.
“La dedica deriva dal fatto che Kagel è morto mentre stavo scrivendo questo pezzo. Dato che mi è sempre piaciuta molto la concezione che Kagel ha del teatro musicale (o, meglio, del teatro dei musicisti), ho pensato di citare il suo Szenario, un pezzo per archi e nastro magnetico in cui Kagel ha registrato dei versi di cani che ad un certo punto sembrano quasi realmente interagire con gli orchestrali, prima con guaiti lamentosi, poi con ringhi aggressivi. L’inizio di questo brano è dato da un continuo movimento periodico di semitono molto vicino ad un movimento di marcia; mi è venuto dunque spontaneo utilizzarlo come introduzione alla Marcia dei pinguini per la vita”.
Un’ultima domanda, di prammatica: sei rimasto soddisfatto dall’esecuzione della Banda la sera del Grande?
“Sì, decisamente. Anche se con qualche prova in più avremmo potuto mettere a punto meglio alcuni passaggi… ma anche questa, forse, è una risposta di prammatica. Devo dire piuttosto che mi ha fatto enormemente piacere alla fine l’accoglienza del pubblico. Non è certo consueto che un pezzo come questo, dal linguaggio in molti punti difficile, venga accettato con una partecipazione così sincera e calorosa. Naturalmente una grande parte del merito va al trascinante solista, che mi ha così gentilmente degnato della sua collaborazione. Forse, oltre le maglie del linguaggio e della complessa costruzione, qualche emozione forte è passata davvero …”
Brescia Musica N° 113, febbraio 2009 – pp. 16-17