A PROPOSITO DI UNA PARTITURA DI A. GIACOMETTI
NELLE “TERRE DI NESSUNO”
di Carlo Bianchi
La prima esecuzione assoluta di Zone di confine, concerto per chitarra, orchestra d’archi e tre percussionisti di Antonio Giacometti, prevista per il 23 settembre ad Alicante, in Spagna (solista Wolfgang Weigel, dedicatario dell’opera), ci offre l’opportunità per rivolgere al compositore bresciano qualche domanda sulla natura di questo pezzo, che già nel titolo prefigura un arduo collocarsi nelle ‘terre di nessuno’, sulle linee di demarcazione tra linguaggi e culture diverse.
Quali sono state le fonti d’ ispirazione per Zone di confine, e quali i loro processi di alterazione o evoluzione?
Questo concerto rappresenta per me il momento più importante, anche se ben lungi dal costituirne il punto d’arrivo, di una personale ricerca nell’àmbito delle interazioni linguistiche.
Una ricerca iniziata alcuni anni orsono coll’intento d’individuare strutture di motricità primaria e ‘riserve’ sonore antropologicamente connotabili, capaci di vivificare dall’interno la scrittura ‘colta’ occidentale del nostro secolo, a mio avviso giunta al capolinea di un troppo spesso autocompiaciuto intellettualismo. Sconfitto nei fatti, anche se non nelle abitudini di molti compositori, un positivismo superficiale, fondato sul falso dogma dell’automatica conversione della complessità logica in complessità musicale, ciò che oggi rimane è l’esplorazione profonda della dialettica fra i tratti universali della comunicazione musicale ed il proprium della cultura nella quale il compositore si è sviluppato come uomo e come artista.
E in questo duro lavoro di riscoperta della propria identità attraverso il confronto con altre identità non v’è nulla di ‘esoticistico’ o di banale, ma il rifiuto, quello sì, delle certezze buone per tutti gli usi, dello scrivere musica come atto meccanico. Comporre diventa, o ri-diventa, mettere insieme. Ma invece di mettere insieme solo note si mettono insieme modi di espressione, ciascuno dei quali cerca di adattarsi all’altro, o di confliggere con esso, generando una complessità di ordine superiore, che non è più quella della costruzione, ma quella del rapporto. Il rapporto che oggi più che mai ci lega alla pluralità delle voci del mondo, così ricche e così contraddittoriee, così vicine eppure così lontane. In Zone di confine il Gamelan balinese, i Raga e i Tala indiani, i poliritmi africani e le strutture geometriche mutuate dalla musica contemporanea occidentale si relazionano per raggiungere un percettibile equilibrio formale ed enfatizzare nel contempo la singola espressione etnica individuale.”
Che tipo di difficoltà pone agli strumentisti, specialmente al solista, il tipo di scrittura che hai adottato?
“Penso che la maggiore difficoltà sia quella di entrare in un’ottica interpretativa diversa da quella usuale, senza peraltro poter imbrogliare le carte nascondendosi dietro l’eccesso di complicazione esteriore. Certo, nella mia scrittura per chitarra (strumento al quale ho peraltro dedicato quasi la metà della mia produzione) c’è anche il virtuosismo tradizionale, così come un allargamento di quel virtuosismo attraverso tecniche nuove di produzione sonora. Ma in questo Concerto la chitarra vuole rappresentare il ponte ideale tra un sentire ingenuamente popolare e un intrinseca tensione verso la conoscenza profonda di sé e degli altri. Un ponte che spesso anche nella vita quotidiana si attraversa senza neppure averne la consapevolezza…
Ricordo una conferenza alla Scuola di Paleografia e Filologia musicale di Cremona in cui il prof. Piras, presidente della S.I.M.A. (Società Italiana per gli Studi sulla Musica Afroamericana), affermava che in base a recenti studi musicologici si è potuto stabilire che l’Africa è la terra d’origine non solo di certi modi ritmici, ma anche delle tecniche di sfruttamento dei suoni armonici e della polifonia. E sono in corso studi volti a dimostrare che perfino l’idea stessa di triade sia di origine africana. Africa dunque, culla dell’uomo e della musica. Qual’è la tua posizione rispetto a queste considerazioni?
“Penso di aver già detto molto, a questo riguardo, nella risposta alla tua prima domanda. E, del resto, mi sono abituato a non sobbalzare più ad ogni scossone inferto a quel non ben giustificato orgoglio europeo dell’essere sempre i ‘primi’ quando si tratti di cose di cultura, d’arte e di scienza. Fin dalla terza elementare, quando il maestro ci comunicò con malcelato risentimento che il canocchiale, la bussola e non so quant’altro ancora “l’avevano già inventato i cinesi (?!)”. Lasciami citare a memoria il beneamato Robert Schumann: – Ricordati che al di là delle montagne ci sono gli uomini. Sii modesto! Non hai inventato niente che altri non abbiano già inventato prima di te (…) – Ma noi non l’abbiamo ancora imparato!
Brescia Musica N° 58, ottobre 1997, pag. 23.