di Salvatore Colazzo
Il volume di Giacometti si presenta come un’utile guida a quanti vogliano avvicinarsi al mondo della composizione, con una preminente preoccupazione didattica. È infatti esplicitamente dedicato agli allievi della Scuola di Didattica della Musica, cioè ai futuri insegnanti di educazione musicale o di strumento nelle medie ad indirizzo musicale, affinché siano in grado di esplicitare competenze compositive atte a creare un repertorio di semplici brani con specifiche finalità didattiche. Ma costituisce pure una stimolante proposta metodologica che può essere assunta, per essere approfondita e opportunamente sviluppata, nell’ambito del percorso formativo del compositore tout-court. Ciò perché pone esplicitamente il problema di come far sì che l’allievo si impossessi degli strumenti tecnici della scrittura musicale senza mortificare la creatività, anzi stimolandolo a trovare nel suo stesso esercizio il combustibile che può alimentare il suo riproporsi in forme e modalità sempre più mature e consapevoli.
Il testo esordisce con una prefazione di Leonardo Taschera che legge il libro di Giacometti riferendolo alla propria passata esperienza formativa, quando i docenti di composizione non si ponevano il problema centrale di ogni insegnamento che ha per oggetto la creatività: come far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti tecnici per manipolare il linguaggio senza che ne risultino compromesse le loro potenzialità espressive?
Taschera elogia di Giacometti – e noi con lui – la consapevolezza della proposta didattica che sa riferirsi alla letteratura storica proponendola come un modello con cui confrontare le proprie intuizioni creative e non già come un che di soverchiante a cui fare indiscutibile riferimento.
Il primo capitolo del libro è dedicato al sistema pentafonico che viene prospettato all’attenzione degli allievi in ragione della “estrema manipolabilità del materiale”, della facilità di intonazione degli intervalli risultanti, della limitata “riserva di suoni” cui fa ricorso. Esso costituisce – in virtù della sua intrinseca semplicità – un ottimo campo di prova per lo sviluppo della creatività musicale.
Il secondo capitolo, che esplora in termini veloci ma efficaci il sistema modale, offre l’occasione per compiere utili riferimenti alla letteratura musicale di Kodaly e Orff, assunti come modelli di sollecitazione didattica vocale e strumentale. Nel capitolo successivo l’armonia tonale viene trattata con una scelta molto precisa: di limitare la trattazione al contrappunto a due voci, rendendola più interessante per una sensibilità ritmica e simbolica che sappia utilizzare in senso funzionale al testo tutti gli espedienti musicali a cui fa ricorso. La composizione strumentale, a cui è dedicato il quarto capitolo, viene orientata a una valorizzazione delle differenze timbriche, in modo da cogliere nelle caratteristiche dei suoni prodotti dai differenti strumenti sollecitazioni per la creazione di brani efficaci rispetto all’ambito comunicativo.
Il successivo capitolo è “una proposta ragionata di lavoro” che, partendo dall’analisi di un frammento del Mikrokòsmos di Barték, invita l’allievo, dopo averne compreso i meccanismi di funzionamento, a riproporne il modello, evitando ogni pedissequa imitazione.
Chiude il libro un ampio capitolo dedicato al minimalismo, “ovvero la complessità reale nella semplicità apparente”, considerato di grande efficacia sotto il profilo didattico per il ricorso alla ripetizione e alla ripetizione con variante e per la ricerca di effetti di accelerazione-rallentamento-stasi, strumenti semplici che consentono risultati di grande efficacia sul piano delle sensazioni e delle emozioni.
Nel passato la creatività era assunta non come problema didatticamente rilevante, ma come dono (il talento) e in quanto tale ricondotto alla natura ed espunto dai percorsi scolastici di apprendimento/insegnamento. Da ciò discendeva un approccio normativo ai problemi del linguaggio: un processo di astrazione fissava in compiti e razionalmente articolati manuali un sistema di regole che, applicate, producevano una letteratura musicale a stretto ed esclusivo uso accademico. Se nonostante questa astratta pratica pluriennale la vena creativa fosse sopravvissuta, il duro esercizio avrebbe trovato un suo inveramento. In caso contrario – e cioè se la disciplina l’avesse avuta vinta sulla creatività – sarebbe rimasto il mestiere che avrebbe consentito comunque la compilazione di brani capaci di funzionare nelle situazioni per le quali sarebbero stati richiesti.
La rottura dell’unità linguistica avvenuta nel secolo passato, ha creato notevole disorientamento in campo didattico: la musica si è trovata infatti di fronte a infinite possibilità compositive e la sua produzione, per avere un senso, ha dovuto fare riferimento all’esigenza creativa, sostenuta volta a volta da un insaziabile spirito ludico, ovvero dal vigore dell’istanza etica e dallo splendore della riflessione filosofica.
Si è tentato di porre rimedio riproponendo il vecchio astratto schema attraverso forme di neo-accademismo riabilitanti il valore di questa o quella tecnica di manipolazione dei materiali sonori.
Con un’evidente accentuazione dell’arbitrarietà della precettistica compositiva e l’avvertimento di un inevitabile senso di frustrazione derivante da una più forte mortificazione della creatività.
Il comporre in generale diventava esercizio scolastico poco o per nulla propenso a valutare gli aspetti extramusicali della scrittura, a considerare le aspettative, le esigenze e i bisogni dell’ascoltatore, a concepire il mestiere del compositore come mediazione fra le istanze di diversi soggetti: l’ascoltatore, il committente, l’interprete. E a scuola impazzavano ovviamente i manierismi, utili a differenziare un ambito di docenza da un altro, questa “famiglia” stilistica da quella, in una spirale crescente di autoreferenzialità, a riconfermare l’insuperata ghettizzazione culturale della musica.
Lavorare quindi per un rinnovamento della didattica del comporre significa orientare la scrittura che si fa a scuola verso realistiche dimenioni performative.
Recuperare la musica alla concretezza della vita significa riabilitare quel pensiero musicale che non ha timore di aprirsi al complesso scambio con altri linguaggi (quello verbale e poetico innanzitutto, ma poi anche quello visuale) e che recupera la dimensione sensibile (meglio sarebbe dire: sensoria) senza cui la musica perde la sua stessa ragione d’essere intersecandola col complesso dei codici ideologici e di costume che fanno propriamente “linguaggio” la musica.
Il libro di Giacometti mi sembra tenga in adeguata considerazione questi aspetti, così come pure ha presente che comporre musica significa attivare una ludicità dell’essere (ludicità che è metter in gioco – per il gusto che ne deriva – le facoltà e le abilità umane) con la quale può negativamente interferire un eccesso di riflessione, capace di bloccare il meccanismo creativo.
Il che non significa svalutare l’analisi, significa agirla, perché costituisca possibilità di crescita della creatività stessa.
Disegnare nell’insegnamento compositivo dei percorsi analitici non significa riabilitare la ratio della tradizionale teoria, ma significa piuttosto misurarsi con quello che Marco De Natale chiama “il fondale antropologico della musica”, imparando a cogliere i meccanismi attraverso cui la musica lavora con e sull’affettività aprendosi anche la via verso dimensioni più astratte (cioè più specificamente musicali).
In tal modo la consapevolezza riflessiva e grammaticale si mantiene incardinata nella pratica, attinge da essa e vi ritorna come arricchimento e ampliamento delle sue potenzialità.
L’analisi non è il puro disvelamento del funzionamento meccanico della scrittura musicale sicché comporre è applicare un dato sistema di regole; è invece la progressiva (e mai definitiva) presa di consapevolezza del sistema di relazioni e dei molteplici livelli a cui esse si collocano, che danno senso e ragione al fatto musicale.
Antonio Giacometti, Linguaggi e forme per inventare. Una propedeutica alla composizione con proposte di applicazione didattica, Rugginenti, Milano, 1999, pp. 172, s.i.p.
Musica Domani – n.120 – Settembre 2001