Antonio Giacometti “GASPARD DE LA NUIT”
sette pezzi per chitarra
di Angelo Gilardino
Negli ultimi dieci anni, si è andato prevedibilmente rarefacendo lo zelo dei compositori non chitarristi nei confronti dell’impegno di scrivere per chitarra. Diciamo prevedibilmente, perché quanto era avvenuto negli anni Sessanta e fino al 1975 circa, aveva le caratteristiche di un fenomeno che, insieme a componenti autentiche e non sospettabili, altre ne offriva, da poter essere attribuite alla moda, una delle tante effimeramente passate per il mondo della musica. In compenso, e forse non proprio prevedibilmente, sta da qualche tempo ripresentandosi all’orizzonte, debitamente rinforzata dall’esempio dei compositori “puri”, la mai scomparsa figura del compositore-chitarrista, che però non è più il “tipo” dell’anteguerra o dell’immediato dopoguerra ma che, non raramente, è un buon musicista con specifiche capacità chitarristiche. Il che vuol dire che, se non è più ammissibile oggi scrivere musica per chitarra senza una buona formazione accademica di compositore, nemmeno è possibile, per un compositore con le carte in regola, ma che non suoni la chitarra, cavarsela con qualche paginetta generica, tirata giù senza aver studiato, almeno con l’osservazione, la tecnica e il lessico della chitarra.
Abbiamo avuto dunque, nell’ultimo decennio, forse meno musica, ma – lo possiamo dire forte – musica migliore, o perché i chitarristi compositori hanno incominciato a dover fare i conti con degli “standard” nuovi – quelli dei Brouwer .e dei Bogdanovic – o perché i compositori hanno capito che non potevano più trattare la chitarra come una pianola a tre ottave scrivendo pezzi da lasciare poi alla demiurgia dei chitarristi-revisori.
Passando all’aspetto più propriamente musicale, l’ultimo decennio ha registrato, anche in campo chitarristico, il conflittuale scontro tra tendenze volte a proseguire la ricerca – già spinta a distanze proibitive – dei maestri dell’avanguardia e tendenze ripiegate, invece, sulla riscoperta dei valori che l’avanguardia aveva messo in disparte.
Abbiamo parlato di conflitto perché le nuove tendenze e le precedenti non si sono pacificamente sovrapposte e mescolate, ma perché al contrario, la polemica; spesso violenta, è sembrata essere un obbligo culturale proprio della nuovissima scuola di compositori, cosiddetti (e certo impropriamente) neo-romantici, con alcune varianti: neo-galanti, neo-tonali (per rimanere alle definizioni rispettose, ma ve ne sono state anche altre meno composte).
Al di là dei bruciori polemici, sembra a noi che il punto sia stato, e sia tuttora, questo: mentre l’avanguardia e le sue appendici hanno negato al suono di essere altro che materia e hanno operato in una direzione di ricerca strutturale, i nuovi compositori hanno avvertito la necessità. di ritrattare la materia sonora, non soltanto di per se stessa, ma anche riattribuendole valori espressivi, in altre parole, riscoprendo, nel far musica, i valori d’ascolto. Al che si annette, immediatamente, il proposito di riguadagnare alla musica d’oggi l’attenzione del pubblico, spietatamente selezionato dai compositori dell’avanguardia. Dice argutamente Massimo Mila che, fra quindici anni, saremo tutti musicisti del secolo scorso, e le polemiche di oggi interesseranno gli ascoltatori di allora, quanto quelle tra brahmsiani e wagneriani. Ma certo. E le musiche che verranno ascoltate, non entreranno nelle scelte degli ascoltatori e degli interpreti per i supporti polemici che ne hanno accompagnata la nascita.
Era necessaria tutta questa premessa per introdurre il nuovo lavoro per chitarra di cui ci occupiamo? Si, perché si tratta di una composizione che, scontata l’improprietà dell’etichetta, è comodo definire “neo-romantica”, tanto per chiarire che si distacca nettamente dalla linea dell’avanguardia “tradizionale” e si presenta in una prospettiva post-darmstadtiana. Sia chiaro che, se ce ne occupiamo, è per i suoi valori individuali ed extra-scolastici. E precisiamo subito che si tratta di valori di espressione e di scrittura.
Il lavoro di Antonio Giacometti ha origini poetiche. Il titolo, già adoperato da Ravel per la sua famosa composizione pianistica (formata dai tre pezzi: “Ondine”, “Le Gibet”, “Scarbo”), deriva da una raccolta del poeta francese Aloys Bertrand (1807-1841), pubblicata nel 1835 con il sottotitolo “Fantaisies à la mémoire de Rembrandt et de Callot”. Poesia dunque, a propria volta derivata dalla pittura. Scrive il compositore parigino Pierre Petit che i poemi di Bertrand costituiscono “una specie di sintesi del romanticismo, che produsse fortissima impressione su Baudelaire. Infatti, non pago dell’aspetto truculento e dei colori forti del romanticismo francese, Bertrand si richiama alle sorgenti del romanticismo rifacendosi alle fantasmagorie mistiche degli autori tedeschi”. Delle vampiresche allucinazioni di Bertrand, sembrano interessare a Giacometti non tanto i colori propri, quanto i fini riverberi che essi hanno avuto sulla poesia simbolista. Infatti, ciascuno dei sette pezzi cita, in capo alla pagina di musica di cui ogni pezzo consta, un verso di Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, fino ad Apollinaire; e tutte queste citazioni hanno in comune l’elemento della notte.
Si tratta di una serie di sette pezzi brevi, la cui durata va dal mezzo minuto al minuto e mezzo. Ciascun pezzo ha caratteri propri, omogenei, e fa uso di specifici modelli di scrittura. Su questo punto il compositore deve subito raccogliere un plauso per la ricchezza e la varietà degli elementi impiegati: il lessico chitarristico è adoperato con estrema raffinatezza e con un controllo dei risultati che non lascia adito a dubbi sulla conoscenza dello strumento. La tavola dei “segni e avvertenze” preposta alla musica è composta di ben ventiquattro elementi e occorre riconoscere che nessuno degli effetti che poi si incontrano nel testo è meno che motivato da precise esigenze di espressione e di colore: tutto a posto.
Il primo pezzo (“Molto liberamente, ma sempre profondamente calmo”) galleggia in un movimento di onde tranquille e misteriose; il secondo (“Rigorosamente”) ha invece due aspetti: uno inquieto e frusciante, tra ribattiture e arpeggi, e un altro (“Più lento”) insistente e reiterativo; il terzo (“Liberamente, ma sempre rapido e nervoso”) trasmette inquietudine ed energie sommerse vi si agitano, quasi minacciando esplosioni; la vaghezza incorporea regna invece nel quarto pezzo (“Lento e uniforme, come una nuvola”), mentre il quinto, un pacifico continuo, medita con una certa interiore gravità (“Adagio”); fulmineo, il sesto pezzo ostenta durezze e urti contrapposti; mentre il conclusivo, settimo pezzo altro non è che la riproposizione, con lievi cangianti, del primo, e quindi ancora “Molto liberamente, ma sempre profondamente calmo”.
I valori chitarristici di questa composizione sono una cosa sola con quelli musicalmente e ricercatamente espressivi: è per questo che ci prendiamo la responsabilità di dichiarare che si tratta di un pezzo bello, suonabile, di fattura squisita e adatto alle ricerche di interpreti sensibili al timbro, alle sfumature e ai sottintesi. Dimenticavamo di dire che non c’è rischio di incorrere in malintesi paragoni con il pezzo pianistico di Ravel, perché Giacometti non si sogna nemmeno di seguitare le orme del compositore francese, o se lo fa, non è certo per ordire sospette manovre effettistiche: qui, non c’è ombra di “Scarbo”, anche se è tutta musica di ombre.
“Il Fronimo”, rivista trimestrale di chitarra e liuto
n.54 – gennaio 1986 – Ed. Suvini Zerboni